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La montan'aria

copertina libro la Montan'ariaE' con lo spirito che lo contraddistingue da sempre che Pier Aldo Vignazia percorre un viaggio lungo cinquant'anni di cambiamenti e mutazioni della montagna e, soprattutto, dei montanari. Lo spirito è quello dell'umorista fine e arguto, quale è sempre stato nel realizzare le vignette che fanno sorridere dalle pagine di molti quotidiani e riviste. Pier Aldo Vignazia si è dilettato a scrivere un libello tra il serio e il faceto, che si prende gioco di usi e (mal) costumi della gente alpina.

«La Montan'aria», questo il titolo del «Dizionario semiserio di alpinismo», come lui stesso lo definisce, è pubblicato dalla Mazzanti Editori e si avvale della bella prefazione di Mauro Corona. Diciassette vocaboli in ordine alfabetico per compiere questo percorso nel tempo e nello spazio, grazie a queste "parole chiave" che ci svelano come è cambiato il pianeta alpinismo.

Un pianeta, vien proprio da definirlo, dove tra microfibre, bevande spaziali e cibi energetici, sembra di essere diventati tutti dei marziani. Le parole chiave sono per lo più di attrezzi (la corda, i chiodi, la borraccia, lo zaino) o di "luoghi" della montagna (il rifugio, il bivacco, la pista da sci), utilizzati per mettere in evidenza come i veri protagonisti del libro, gli alpinisti, si muovano ormai in modo inconsulto e schizofrenico. Un libro per prenderci e prendersi in giro bonariamente, come quando si racconta di quant'erano belli i tempi in cui non solo in montagna non c'era il telefonino, ma non c'era neppure nella sede del Cai, dove andavi per isolarti qualche ora da tutto e da tutti. Da anni il telefono squilla al Cai e passi, scrive Vignazia, ma il problema è che squilla anche a tremila metri e questo provoca più danni che sicurezza, perché si sa che ci si può far raggiungere da un elicottero anche per una distorsione alla caviglia.

Ma attenzione, come scrive Mauro Corona nell'introduzione, sono pagine che non contengono «rimpianti lacrimosi o nostalgie patetiche. L'autore è troppo saggio per abbandonarsi a melensi "Che belli quegli anni" o a pietosi "Allora si stava meglio". Ma nemmeno si fa prendere dall'imbecillità dell'era moderna, dove una borraccia da escursione (oltretutto pesante come il piombo) la paghi trecentomila quando, per la stessa bisogna, basta una bottiglia di plastica da zero lire: contiene più acqua, pesa pochi grammi ed è indistruttibile (...) Tagliando frasche con la roncola dell'ironia dal sentiero dei luoghi comuni, Vignazia scopre altarini, punti deboli e scheletri negli armadi degli alpinisti».

Insomma, un saggio divertente e finalmente non auto-celebrativo sull'alpinismo. E, dimenticavamo, corredato dalle sempre piacevoli vignette.

Da "L'ALTO ADIGE" 2 novembre 2001

 

 

  • LA MONTAN'ARIA - Dizionario semiserio di alpinismo
  • Autore: Vignazia P. Aldo
  • Editore: Mazzanti (collana Scritti in redazione)
  • Edizione: 2
  • Data di Pubblicazione: 2002
  • ISBN: 9788888114118

 


 

 

Un capitolo tratto dal libro la montan'aria...

 

PISTAA!

Una volta la neve era naturale. Sembrerà un’ovvietà, ma non è così. Una mia amica, che era stata una diecina d’anni senza sciare, era piuttosto preoccupata dalla pubblicizzata presenza dei cannoni lungo le piste. Forse temeva di trovarsi in un posticipo del campionato fra Kaiserjaeger e Alpini.

La neve un tempo cadeva dall’alto, ora viene proviene dal basso: preoccupante sintomo di avanzata sindrome millenaristica.

Una volta la neve era in fiocchi, oggi viene fabbricata in granelli, come se fosse un progresso passare per colazione dai corn flakes ai chicchi di mais, come i polli.

E a scendere lungo una pista innevata artificialmente un po’ polli d’allevamento ci si sente, se non addirittura polli tout-court , con questo gesto separato dal contesto, in cui la montagna serve solo come pendio e – al limite – come freezer. E’ una sciata che avvicina il mondo occidentale a quello giapponese, con le sue piste da sci costruite in città dentro tunnel o i giocatori di golf che tutti in fila da una terrazza sparano palline nel cortile sottostante. La globalizzazione dello sport come la globalizzazione della frutta e verdura: castagne a ferragosto e ciliegie a Natale, senza ormai più dubbi né vergogne.

Del resto, nell’eterna dialettica mare – monti, la montagna è venuta ultima: per primo ha cominciato il mare, con le sue piscine al cloro al posto dell’acqua salata ma sospetta, con i suoi scivoli per adulti e le finte onde motorizzate al posto delle buche e dei pesci ragno: la natura è bella ma pericolosa, soprattutto se ci si buttano dentro tonnellate di atrazine e di colibatteri.

Una volta, poi, la neve veniva soprattutto al nord. Né Thoeni, né Gros erano di Messina.

Adesso nevica al centro – sud, mentre i paesi delle Dolomiti hanno un aspetto eternamente autunnale. E, in quanto a campioni, siamo arrivati a Bologna.

Ancora qualche anno e avremo come slalomisti qualche Esposito o qualche Cuppiello, e un po’ più in là arriveremo forse ai Macaluso e ai Pisciotta, a meno che le piste artificialmente innevate delle gare non li disorientino, loro, abituati ai metri di neve fresca dell’Etna e delle Madonie.

Sulle piste, la fauna è sempre più varia, segno che la sensibilizzazione alla “wilderness” sta cominciando a produrre i suoi frutti, introduzione dei rapaci compresa. Esiste ancora, è vero, lo sciatore stanziale, il locale che da quarant’anni fa tutti i giorni per tutto l’inverno le stesse piste. Lo si riconosce dalla faccia color cuoio e dall’impudente curva a semispazzaneve in perenne rotazione del busto con cui affronta qualunque tipo di pista, comprese le più ripide, senza la minima esitazione né tentennamento, nemmeno là dove i campioncini di città si esibiscono in pigne paurose. I suoi sci sono ancora i leggendari Persenico con il primo attacco Marker con i molloni, ma solo l’occhio dell’esperto antiquario riesce a riconoscerli, dato che la vernice è quasi del tutto sparita sotto le grattate subite alle code degli skilift. Ovviamente conosce tutti e di solito paga il giornaliero non in contanti ma in bicchieri di vino e in lunghe chiacchierate con gli addetti, e nelle ultime discese le sue curve appaiono sempre più pericolosamente ondeggianti.

All’estremo opposto c’è il cittadino di pianura, rapinato dal negozio più “in” della metropoli con l’ultimo modello di sci, attacchi e scarponi da competizione, quelli che anche i campioni in gara cercano di vincere solo per poterseli togliere prima degli altri. E dentro quell’attrezzatura lui deve passarci tutta la giornata, polenta e capriolo compresi. Accenna ad una diagonale, poi si ferma al bordo della pista. Si dà un contegno guardandosi attorno, ma intanto ulula nell’intimo tutto il suo dolore per l’alluce compresso nello scarpone da Coppa del Mondo. Poi si fa coraggio, e si cimenta nella prossima diagonale, sperando che chi deve vederlo per testimoniare in città della sua attrezzatura faccia presto a incrociarlo, prima del crollo finale.

Fra i due opposti, c’è tutta la gamma, dalle famigliole costrette alla neve perché al papà piace sciare, alle signore “una- discesa- e -quattro- ore- di- sdraio”, al soccorritore alpino in proprio. Costui è uno dei personaggi più interessanti della fauna sciatoria. Come l’avvoltoio si appollaia sull’albero in attesa della morte della vittima, così il soccorritore alpino in proprio si attesta in cima alle parti più ripide della pista, i cosiddetti “muri”. E’ immobile, ma gli occhiali a specchio nascondono il continuo muoversi delle pupille attente. Appoggiato ai bastoncini, cambia l’appoggio sugli sci solo quel tanto che la neve non si attacchi alla soletta. E aspetta. Prima o poi la vittima arriva.

Si tratta di solito di una fanciulla tanto avvenente quanto poco pratica, che sul ripido entra palesemente in crisi. Ma l’avvoltoio attende ancora: deve prima accertarsi che la preda non sia già di proprietà altrui. Se alla seconda caduta non appare segno di marito o fidanzato, egli si lancia: con uno scodinzolo strettissimo, badando a sollevare più neve possibile, cosa sempre di grande effetto sui principianti, in un attimo le piomba sopra in una nuvola di cristalli: “Ciao! Posso darti una mano?”

E, di solito, la sventurata risponde.

Lo sci, una volta, faceva parte del grande mondo della montagna, con i suoi miti e le sue leggende, con la sua atmosfera e la sua etica, un po’ autentica e un po’ da P.R. L’uomo della seggiovia, ad esempio, con la barba lunga grigia e il cappello a pan di zucchero era considerato da tutti l’oracolo delle piste: a lui si chiedeva del tempo e della neve, e lui rispondeva infallibile, mentre fra un biglietto e l’altro sorseggiava l’immancabile bicchiere di rosso.

Nel gruppo c’era sempre il signore che conosceva tutte le montagne, e le indicava una per una chiamandole per nome e cognome, mentre la platea attenta aumentava e le signore facevano a gara per domandare: “E quella?” “E quella?” in un desiderio di conoscenza tanto sincero quanto effimero.

Alla sera, in albergo, ci si trovava a cantare la montanara, mentre le bottiglie di rosso eventualmente avanzate dall’uomo della seggiovia venivano scolate fino all’ultima goccia dalle gole arse per le discese e per la carne alla brace.

L’uomo della seggiovia, adesso non c’è più. Al suo posto, a staccare i biglietti, c’è un ragazzotto col piercing, palesemente annoiato, che non si interessa del tempo più di quanto non gli interessi la produzione dei canguri in Australia, e anche se ne sapesse qualcosa non sarebbe in grado di rispondere, perché lo stereo a tutto volume che tiene nel suo casotto gli impedirebbe di udire alcunché. Per quanto riguarda la neve, poi, c’è poco sia da chiedere sia da rispondere: si tratta sempre della stessa neve artificiale, uguale dalle Montagne Rocciose agli Urali, che ha dappertutto lo stesso gusto di plastica che ha la mozzarella industriale rispetto all’antico e ormai scomparso formaggio di malga. Il colloquio del ragazzotto con i clienti avviene quindi a gesti, e il prezzo da pagare appare su un display luminoso.

La seggiovia, poi, fa tutto da sola: si ferma, si apre, si chiude, riparte, mentre un altoparlante diffonde l’ultimo successo techno, evidentemente tipico alpino. E che seggiovia! Se ancora in qualche stazione minore si può trovare, protetta evidentemente dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali , una di quelle seggiovie che hanno fatto cantare all’ironico e compianto poeta bellunese Ugo Neri di una “carega che camina / sot al fil che la strasina”, ora prendere una seggiovia assomiglia a fare un viaggio in elicottero. Appena seduti, una cabina vi richiude in un mondo protetto di plexiglas e alluminio, e la musica techno proveniente dall’altoparlante non è più così diversa dal ritmo delle pale di un rotore.

Il signore che conosceva tutte le montagne adesso non c’è più. O se c’è, le sue conoscenze se le tiene per sé, e si guarda bene dal fermarsi ad indicarle a chicchessia: verrebbe immediatamente falciato da qualche assatanato sullo snowboard o da qualche incapace di intendere, di volere, e anche di sciare, lanciato a duecento all’ora in discesa libera.

Del resto, che montagne siano quelle all’orizzonte interessa sempre meno a tutti: il giornaliero costa ormai mezzo stipendio, e l’importante è sfruttarlo fino in fondo, fino all’ultima corsa, porti essa direttamente alla serata dove continuare con la musica techno e il whisky al posto della montanara e del vino, oppure, come sempre più sovente accade, al più vicino Pronto Soccorso.

 

 

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